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Addio a Marta Attolini, fotografa

Il 28 giugno scorso, quasi centenaria, ci ha lasciato una donna illustre, erede di una famiglia di ingegnosi fotografi, cineoperatori e orologiai oramai quasi del tutto dispersa. Marta “la rossa” era la figlia di Giovanni Attolini, il fotografo che ha ritratto generazioni di nocesi nel suo studio fotografico in Piazza Plebiscito prima, poi in via Santa Rosa , infine nei locali attualmente appartenenti alla Dimora Intini. In quel luogo l’intellettuale socialista accoglieva i membri di questa comunità contadina emancipandoli allo status borghese attraverso uno scatto impostato, arricchito di costumi di scena e oggetti decorativi che potesse elevare l’immagine di uomini, donne o bambini a sublime rappresentazione da consegnare ai posteri. E davvero nelle case di tutti i cittadini nocesi sono esposte e conservate a futura memoria i ritratti bellissimi da lui realizzati.

Sua figlia Marta è cresciuta all’ombra di un padre creativo e avanguardista che aveva portato a Noci il cinematografo e lo gestiva in quella sala comunale che per volere di  Don Anastasio diventò poi parrocchiale, in una situazione conflittuale degna di un romanzo di Guareschi. Nata nel 1924, ha attraversato anni interessanti: è stata – con molta consapevolezza rispetto alle trasformazione politiche e culturali del Paese - una testimone del secolo: indimenticabili i suoi racconti di personaggi e accadimenti che legavano le microstorie del piccolo comune in cui viviamo ai grandi fatti della Storia (come quello in cui raccontava, divertita, la telefonata ricevuta da una parente non troppo colta, sconvolta dal tragico evento, il giorno della morte di Pier Paolo Pasolini o quello in cui aveva per ore preso in giro un politico locale fingendo di non aver capito la differenza tra il simbolo con lo scudo crociato e quello con la falce e il martello).

Ha vissuto gli anni dell’immediato dopoguerra che sono stati quelli della rinascita del cinema in Italia, del fiorire di nuove aspirazioni sociali che sarebbero confluite nelle lotte per l’emancipazione e il progresso.

Proprio precorrendo i tempi, tra lo studio fotografico e il cinematografo in cui veniva ingaggiata come rumorista di film ancora muti, era cresciuta la giovane Marta, spirito libero sin dall’adolescenza, curiosa e gioiosa ragazza spregiudicata. Spesso ritratta dal padre come le star di Hollywood, alla lettura dei romanzetti vacui di Liala preferiva le corse in bicicletta che, diciottenne, le costavano discutibili appellativi, complice il colore malpelo dei capelli e l’oppressiva resistenza di un patriarcato ancora troppo radicato nella nostra periferia meridiana. Lo stesso ostile patriarcato che, quando fu fra le prime donne a Noci (forse la prima) a prendere la patente, le fece subire rimostranze e musi storti.

Anche dopo l’arrivo dell’ultimo figlio Titta, ha lavorato nello studio fotografico tenendo a bottega un giovanissimo apprendista fotografo il quale, appresa la tecnica e raggiunta l’autonomia, avrebbe poi a sua volta avviato un’altra generazione di fotografi a quel mestiere. Vanni Liuzzi, rendendole omaggio il giorno del funerale, ha ricordato che Marta è stata “a mest” di Vincenzo Liuzzi, Cenzino, suo padre.

Se in ambito professionale ha avuto il coraggio di svolgere un lavoro considerato appannaggio dei soli uomini in quello studio fotografico chiuso alla morte del padre, in casa Marta ha continuato a fotografare fino alla consunzione della pellicola analogica e all’avvento della fotografia digitale che, pure, l’incuriosiva tantissimo. Ancora negli ultimi anni della sua vita provava a cercare, dentro i monitor e gli schermi degli smartphone, il senso di uno scattare che per lei, senza il buio e gli acidi, non poteva essere fotografare,  il valore di un uso automatico e poco consapevole di quel mezzo potentissimo e creativo che lei aveva tanto amato e rispettato.

Marta era mia nonna. Ha fotografato per intero la mia infanzia, quella di mio fratello e dei miei cugini, quella di tutta la nostra famiglia allargata che partecipava alle feste e veniva accolta in casa con una generosità non scontata. Siamo cresciuti in tanti grazie alla sua cura, figli di madri lavoratrici indipendenti e spesso costrette ad affidarsi alla sua costante e rassicurante presenza. È stata una infanzia invidiabile  e indimenticabile grazie a lei che ha vissuto per e con gli altri una vita piena di convivialità e cultura del dono. Le femministe ci hanno insegnato che in una società senza welfare reale l'emancipazione di una donna si realizza spesso delegando il lavoro di cura ad altre donne, a donne di famiglia, e così è stato nel nostro caso. Il tutto in un clima allegrissimo perché lei era anche molto spiritosa.

Con la sua Rolleyflex manuale ha contribuito alla costruzione di un prezioso archivio familiare in cui c’è traccia di tutte queste relazioni umane che trascendono la materialità della pellicola, superano la permanenza terrena dei soggetti rappresentati, continuano a vivere nel vissuto di nuove generazioni.

Marta era mia nonna, ma era anche un membro attivo della comunità. Pur senza troppi mezzi, non ha fatto mai mancare il suo aiuto ai tanti che lo chiedevano. Prima ancora di prestare servizio presso associazioni di volontariato, il suo cuore grande aveva supportato le stravaganti esigenze del marito Ciccilludd che non si preoccupava troppo di avvisare quando decideva di portare gente a casa in cerca di un pasto caldo, o quelle effervescenti delle figlie adolescenti Rosangela e Giovanna che le chiedevano di accompagnarle alle feste. Negli anni Sessanta, patentata, faceva la spola tra Noci, Monopoli e Bari per consentire a mia madre e a mia zia, assieme alle loro amiche, di andare al mare o a ballare. La sua piccola automobile era strumento di emancipazione per lei e per loro, luogo sicuro in cui rifugiarsi anche quando oramai anziana aveva difficoltà a camminare. In auto si sentiva bene. E in effetti ha guidato la sua Fiat Cinquecento gialla, scorrazzando avanti e indietro per il paese, fino all’età di novanta anni. Molti la ricorderanno probabilmente così.

Io ho voluto ricordarla perché, negli archivi di un periodico, possa un giorno essere ritrovata questa breve ma doverosa ricostruzione dei fatti, dalla quale, per ragioni di spazio e di riserbo personale, espungo i ricordi privatissimi del mio legame strettissimo e profondo con lei, l’intesa e l’intimità ai quali nessuno può accedere e che restano indicibili e misteriosi a qualunque sguardo estraneo. Un mistero che ricorda quello della camera oscura dalla quale emerge la luce della vita, tutto il senso della memoria.

Ciao, nonna. Generazioni di donne e di uomini continueranno a portarti dentro.

Angela Bianca Saponari

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